domenica 27 luglio 2014

COME USCIRE DALLA CRISI, IN SINTESI


Mettiamo in chiaro le questioni indispensabili per comprendere il genere di crisi che attraversiamo e come uscirne.

1)la verifica empirica dei fatti a partire dagli anni ’80, quando iniziarono ad essere applicati regolarmente i principi guida liberisti dopo il successo politico-mediatico di tatcheristi, reaganiani, monetaristi e antiliberisti di ogni estrazione, parla chiaramente, in occidente, della distribuzione sempre più sperequata, a favore dell’1% più ricco della popolazione e a danno del 99% restante, di un PIL “reale” in continua e consistente contrazione recessiva. Ciò significa che nei fatti viene da allora distribuita a favore della elite creditizio-finanziaria, delle multinazionali, dei manager, di attori, cantanti e simili, e, più in generale, dei ceti possidenti, i così detti “top incoming”, una “fetta” costantemente crescente del prodotto sociale, a dispetto dell’inesorabile contrarsi progressivo del diametro della “torta” comune da dividere. Ne discende, come minimo, la necessità di indagare se la ignoranza sistematica di queste circostanze da parte di scienza, media e politici di quasi ogni estrazione non si spieghi con la progressiva affermazione di un sistema di potere piramidale che esprime gli interessi di questo 1% soltanto e nega la diffusione delle conoscenze contrarie, necessarie per la formazione di un adeguato pensiero politico antagonista.

2)nel concreto, il modello liberista, in estrema sintesi, propone di comprimere continuamente retribuzioni e welfare, maggiorare il tempo di lavoro pro capite e precarizzare il più possibile, nonchè comprimere sistematicamente la domanda interna, iper-remunerare i capitali, detassarli e tollerare la “grande” evasione ed  elusione fiscale, al fine dichiarato di: a)contenere il più possibile la inflazione e le importazioni in modo classista, ovvero senza dovere intervenire con il calmiere all’ingrosso e con contingentamenti della loro qualità e quantità, b)sedurre i detentori di capitali con la iper-remunerazione dei loro cespiti onde attrarli verso l’Italia e renderli così disponibili in maggiore quantità ed a buon mercato, c)più che compensare con esportazioni rese più competitive da queste manovre pur anti-sociali la contrazione del mercato interno che si provoca coscientemente proprio al fine di così acquisire maggiore competitività. E’ di fatto un modello orribile e comunque impossibile sia tecnicamente che storicamente, sia perché non è nemmeno pensabile un sistema-mondo in cui tutti esportano più di quanto importano, sia perché è comunque imbattibile sul fronte dei costi la concorrenza “sleale” delle imprese delocalizzate in aree dove producono sottocosto nel massimo dispregio della natura e dell’uomo (incluse quelle “proprie” cui si consente la delocalizzazione), sia perché, anche quando potesse funzionare per un certo periodo e per qualche paese, comporterebbe comunque la esportazione nei paesi “fratelli”, insieme ai propri beni e servizi, pure di tanta disoccupazione e tanti fallimenti quanti ne implica necessariamente la mancata produzione nazionale che si va a soppiantare con le proprie esportazioni. La sua applicazione comporta pertanto la ridistribuzione sempre più regressiva di un PIL in continua contrazione recessiva, a causa della continua caduta della domanda interna provocata sia dalle delocalizzazioni che dalle misure di aumento dello sfruttamento del lavoro, sia, ancora, dalle misure deflattive volte a contenere importazioni e inflazione. Nella ridistribuzione regressiva, poi, la domanda interna cala anche perché quando cala il reddito delle fasce medio-basse, prettamente consumatrici, a vantaggio di quello delle fasce alte, essenzialmente risparmiatrici, aumentano i risparmi percentuali interni a danno dei consumi percentuali interni privati e pubblici.

3)la terza cosa da tenere bene a mente è che nei sistemi mercantili si investe e si assume solo al fine di produrre una maggiore offerta che possa essere venduta con profitto sul mercato interno, al saldo dell’export-import. Ne consegue che quando la domanda interna stagna/cala senza che quella estera lo compensi, nessun incentivo dal lato della offerta (sgravi fiscali, contributi a fondo perduto e simili) può convincere un imprenditore ad assumere o investire di più solo perché farlo gli costerebbe di meno di prima,  in quanto non sarebbe collocabile con profitto né all’interno né all’esterno quella maggiore offerta che si andasse a produrre con questi pur meno cari investimenti e occupati aggiuntivi. In queste condizioni, incentivare l’assunzione di donne, giovani o al sud, comporta pertanto solo il licenziamento corrispondente di uomini,non giovani e al nord.

4)la quarta cosa da sapere è che la domanda interna può essere espansa in soli tre modi tradizionali: a)con il deficit.-spending, b)con la moneta “allo scoperto”, c)con le riforme ridistributive del PIL.

-a)Il deficit-spending funziona finanziando con bond, meglio se  a rendimento netto negativo, una domanda interna aggiuntiva e autonoma rispetto alla distribuzione che, come sappiamo ormai dagli studi di Keynes sulla crisi di Wall Street del 1929, promuove un processo espansivo della domanda complessiva che è un multiplo rispetto all’aumento iniziale e il cui coefficiente di moltiplicazione dipende dalla quota di domanda interna che non si risolve in aumento di offerta interna, vuoi perchè si perde in inflazione “da oligopolio”, vuoi perché viene soddisfatta dalle importazioni a causa del grave errore di optare per un regime valutario e doganale deregolamentato anche nelle fasi espansivo-inflattive. Per i liberisti è sempre e comunque una eresia optare per un regime valutario e doganale vincolistico, anche nelle fasi espansivo-inflattive, ed è per questo che sostengono la impraticabilità del defcit-spending: perché in regime deregolamentato buona parte del processo moltiplicatorio si perde in inflazione e aumento delle importazioni. Per gli antiliberisti è invece una eresia rinunciare al moltiplicatore keynesiano per la insistenza folle liberista nella deregulation anche nelle fasi espansivo-inflattive, laddove imponendo adeguati vincoli valutari, doganali (e borsisitici), nonché il calmiere all’ingrosso e la svalutazione periodica del cambio in misura pari all’eventuale differenziale di inflazione residuo,  calcolano tra 4 e 7 il valore del coefficiente di moltiplicazione keynesiano: pompando di 100 mld la domanda interna con un debito aggiuntivo di, poniamo, 120 mld per capitale e interessi, si provoca infatti una  espansione complessiva del PIL compresa tra i 400 e i 700 mld, il che, visto che il 50% circa dl PIL torna allo stato come imposte (+200/350), consente anche in presenza di rendimenti netti positivi dei bond l’agevole rimborso del debito acceso (-120) per espandere keynesianamente il PIL.

-b)la moneta allo scoperto consiste nella spendita per acquisti sul mercato interno di qualsiasi forma di moneta priva di controvalore corrispondente al momento della sua spendita. Il fenomeno è possibile in ragione della assenza di valore intrinseco di quasi ogni forma moderna di moneta, da quella statale a corso forzoso a quella bancaria prodotta elettronicamente grazie al sistema della riserva frazionaria, nonché alla moneta cartolare prodotta dalla finanza “creativa”. E’ la sua accettazione da parte dei venditori che discende questo effetto: perfino la moneta del falsario “funziona” se viene accettata, in quanto pur essendo priva di “copertura” al momento della sua spendita, paradossalmente la acquista lo stesso man mano che viene concretamente prodotta l’offerta che ha reso profittevole produrre e che mai sarebbe stata altrimenti prodotta! Fenomeno arcinoto da secoli in ambiente finanziario ma pressoché sconosciuto in ambito scientifico, divulgativo e politico, costituisce il “SEGRETO DEI SEGRETI” del capitalismo e la sua divulgazione cambia talmente tanto i termini del dibattito politico da porre seri problemi di mediazione del consenso e di perseguimento degli equilibri politici, quanto meno allo stato ignoti e imprevedibili, pur se ineludibili oggi, alle soglie del terzo millennio.
Se poi si considera che i bond pubblici sono abitualmente scambiati con moneta bancaria “allo scoperto” perché creata con il sistema della riserva frazionaria, va altresì concluso che anche il deficit-spending è in realtà una forma di finanziamento “allo scoperto”, così come lo è pure il gigantesco e sistematico finanziamento operato dai colossi bancari privati con la loro riserva frazionaria in favore delle multinazionali facenti parte del loro medesimo trust con prestiti di moneta bancaria virtuale continuamente rinnovata a ogni scadenza.

-c)le riforme ridistributive o “a costo-zero”, consistono in ogni intervento legislativo che sortisce l’effetto di ridistribuire PIL dalle fasce alte verso quelle basse, poiché trasforma progressivamente risparmi privati in consumi pubblici e privati e, pertanto, anche così si propelle keynesianamente la domanda interna. Si pensi al calmiere sugli interessi bancari, sui premi assicurativi e sulle utenze telefoniche e dati, piuttosto che all’equo canone sulla grande proprietà immobiliare, o, ancora, alla ridistribuzione più progressiva di retribuzioni e pensioni pur all’interno del medesimo “monte” retribuzioni e pensioni.

5)in definitiva, possiamo concludere che per uscire dalla crisi bisogna optare per un regime borsisitico, valutario e doganale vincolistico e quindi operare gli interventi keynesiani più graditi in regime di inflazione “controllata”, cambio svalutato centralmente e dazi protettivi. In assenza di mediazione del consenso e false informazioni, dovrebbero essere ostili a un simile progetto solo tutti coloro che hanno ragioni fondate di temere da simili riforme di struttura una probabile contrazione della “fetta” di PIL e di potere oggi ottenute in distribuzione, ossia l’1% più abbiente. Disgraziatamente scienza, media e politici sembrano essere stabilmente nelle mani di quell’1% ed è solo questa la vera ragione della impasse in cui ci troviamo. Uscirne è del resto d’obbligo, pena l’avvitarsi dell’intero occidente in una perversa spirale senza fine di tipo regressivo-recessiva che ci accompagnerà fino alla quasi totale disintegrazione dell’intero sistema, accelerata periodicamente da una delle tante crisi borsisitiche che la deregulation consente e favorisce, e sempre che la situazione non precipiti prima a causa di un improvviso e plausibile  crack sistemico.  
In sintesi, pertanto: 1)abbandoniamo immediatamente la opzione della triplice deregulation (borsistica, valutaria e doganale) adottata nei vigenti trattati europei in ossequio al liberismo più ottuso ed estremo; 2)variamo quindi manovre keynesiane di sostegno dei mercati interni, previo blocco alla radice sia della emorragia di capitali che della speculazione interna e internazionale che sempre accompagnano ogni svolta keynesiana; 3)conteniamo l’inflazione con adeguate misure di calmierazione e perfino la neutralizziamo completamente nei rapporti esterni con periodiche svalutazioni che accompagnino il differenziale d’inflazione residuo, per esempio tra Stati Uniti e Unione Europea; 4)blocchiamo nel contempo con adeguati vincoli anche la prevedibile speculazione borsistico-valutaria; 5)conteniamo con adeguati vincoli valutario-doganali all’interno della UE anche le esportazioni di capitali e le delocalizzazioni contrarie all’interesse nazionale.
Si potrà così finalmente fondare la ricostituzione del sistema produttivo europeo sulla base della sua domanda interna, in regime di pareggio tendenziale dell’export-import.
La domanda interna può a sua volta essere finanziata in due modi:
a)stornando risorse dai ceti possidenti, verso le fasce medio-basse, con riforme a costo-zero quali la riforma fiscale progressiva e patrimoniale, o  calmierando i canoni di locazione delle grandi proprietà immobiliari piuttosto che gli interessi bancari e i premi assicurativi;
b)finanziando la spesa pubblica con bond collocati a tassi netti minori o uguali a zero presso le banche pubbliche. Perfino l’attuale trattato di Lisbona consente infatti alla BCE di prestare allo 0,50%, esattamente come li presta a tutte le banche private dell’eurozona (è così che fanno regolarmente i tedeschi), o “alla giapponese”, ossia forzosamente e al medesimo tasso, presso le banche private che operano nei vari territori nazionali, quale prezzo della licenza bancaria. Ciò che pesa del debito pubblico, infatti, non è il suo valore assoluto, o il suo rapporto con il PIL, ma solo l’ammontare degli interessi annui netti e sempreché questi siano alti e protratti nel tempo. L’assurdo consiste oggi nel collocarli sui mercati finanziari, notoriamente speculativi.  E’ la trappola dello spread. Per quanto concerne l’Italia basterebbe riportare in mano pubblica la Cassa Depositi e Prestiti, o creare un polo bancario pubblico in grado di ricevere il denaro al tasso praticato dalla BCE per le banche private e si otterrebbe un risparmio secco di 80 dei circa 90 miliardi € di soli interessi che vengono ogni anno regalati alla speculazione
E’ chiaro che abbandonare le tradizionali ricette liberiste in favore di queste ricette anti-liberiste, vuol dire fare l’interesse della stragrande maggioranza della popolazione contro quello dell’1% più ricco e potente.
E’ pure chiaro che, se queste misure venissero adottate dai 17 della Unione Europea, si dovrà regolare al loro interno il pareggio tendenziale dell’import-export, che oggi registra uno sbilancio di circa 150 mld. € l’anno dai PIGS verso la Germania.
Se i paesi dell’euronord non fossero invece d’accordo, le stesse misure potrebbero essere adottate di comune intesa dai PIIGS, cui potrebbe e dovrebbe associarsi la Francia: per questa parte dell’Europa c’è la necessità di avere un euro “vero”, corrispondente ai loro interessi.

di Nando Ioppolo 14/6/2013

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